SONO COME TU MI VUOI?

Improvvisamente, facendo le pulizie nella mia amata casa in una normalissima mattinata di primavera, dopo aver attivato tutti i rituali legati al momento, quali salvia bianca, mantra indiani di purificazione e finestre spalancate, mentre sto arrotolando la parte inferiore del mocho al bastone pronta a purificare con acqua, pino e menta tutto il pavimento ecco che arriva la domanda: ma io, so ascoltarmi veramente?

 

 

Baaam!

 

Con grande presenza ho intinto la spugna del mocho giallo nel liquido e iniziando a pulire ho iniziato a danzare, dentro e fuori. Sono entrata in un movimento fluido, delicato e gentile. Ed è stato lì, che ho visto e compreso.

Cosa significa ascoltarmi? Per me, significa saper riconoscere i miei bisogni più profondi e metterli, quando serve, al primo posto. Invece, la dinamica automatica è spesso quella di captare i bisogni altrui, sintonizzarmi a questi tanto da aggrapparmici per poterli soddisfare e sentirmi riconosciuta, amata, accettata. Degna. Adeguata.

La dinamica della salvatrice è un film che prima o poi molte di noi si trovano a dover interfacciare, soprattutto se il cammino intrapreso è quello dell’autonomia emotiva. Nell’anticipare i bisogni altrui o nell’agganciarci al dolore altrui, portando magari soluzioni o consigli non richiesti ci infiliamo dritte dritte nella bocca del lupo.

C’è un confine sottile tra il sostegno che posso dare all’altro e lo spostarmi da ciò che l’altro mi mostra di me, perché scomodo da sentire. Certo, l’altro, se inconsapevole del meccanismo, forse mi ringrazierà e io mi sentirò meglio. Ma ho solo abboccato all’esca della salvatrice. Perché, diciamocelo sinceramente: è così che ci sentiamo in quei casi. Sollevate e leggere per aver salvato un piccolo pezzettino di mondo. Ignare del fatto che tutto quello che abbiamo fatto è: ignorare il nostro sentire, il nostro bisogno, ancora una volta.

Se invece siamo fortunate e ci troviamo di fronte a qualcuno di consapevole, riceveremo una bellissima risposta: “fatti i fatti tuoi, se ho bisogno di qualcosa, te lo chiedo”.

 

Baaam!

 

Se siamo abbastanza sveglie da attivarci in modo costruttivo, facciamo tesoro di questa risposta facendo una semplicissima considerazione: in effetti, nessuno mi aveva chiesto niente. E da qui possiamo permetterci di approfondire osservando cosa ci ha spinte a dare consigli o dire frasi motivazionali non richieste.

Se invece siamo molto identificate con la salvatrice, l’unica cosa che verrà scalfito è il nostro ego da salvatrice, che si sentirà ferito e umiliato. E in un battito di ciglia da salvatrice diventiamo vittima.

Ho imparato a mie spese quanto controproducente sia interferire nella vita altrui senza che ci sia una specifica richiesta. Esplicita. Personalmente, non mi permetto neanche di mandare “luce e amore” alle persone se non mi viene espressamente chiesto: chi sono io per decidere di mandare qualcosa a qualcuno? Come posso sapere se “luce e amore” sono veramente quello di cui la persona necessita in quel momento? Magari ha più bisogno di stare nel buio e imparare ad aguzzare la vista da sola. Fare supposizioni è pericoloso e spesso è un boomerang che torna indietro alla grande.

Come donna, questa modalità della salvatrice la trovo abbastanza comune. Fa un po’ parte della nostra cultura. Fondamentale a mio avviso è esserne consapevoli. Personalmente, quando sento che una situazione mi attiva qualcosa dentro e vorrei dire o fare qualcosa per qualcuno, mi aiuto facendomi queste domande:

  • E’ di mia competenza?
  • Mi è stato chiesto di intervenire?

 

Se la risposta a queste domande è ‘si’, mi attivo. Ma se la risposta è ‘no’, passo alle successive:

  • Cosa c’è di mio in tutto questo?
  • Di cosa ho bisogno di prendermi cura in questo momento, in me?

 

A volte succede che la persona che sta condividendo ci dia la sensazione che vorrebbe ricevere aiuto, ma non abbia il coraggio di chiederlo esplicitamente. Allora posso chiederle:

  • Posso fare qualcosa per te?

Se la risposta che arriva è ‘no’, sto con quel no. Sto con l’eventuale disagio che si crea dentro di me e forse imparo a respirare anche la mia emotività attivata da quel ‘no’. Forse…

 

Ciò che è fondamentale è che io rispetti la scelta della persona. Rispettando lei, rispetto me. Ricordiamoci che ciò che accade fuori, accade dentro di noi. Non commettiamo l’errore di pensare di essere separate dall’altro: tutto ciò che agisco fuori, lo sto agendo dentro di me. Cura, attenzione, responsabilità e amore, significano anche saper surfare l’onda del disagio, rispettando ciò che l’altro ha chiesto o manifestato.

Sulla base di quanto appena descritto si evince che riconoscere i propri bisogni non è sempre semplice. Non amo generalizzare per cui dico anche che non è così per tutti: ci sono strutture caratteriali che sono bravissime in questo e strutture che fanno più fatica e ci sono anche persone che si stanno allenando ad imparare.

Non riconoscerli è doloroso. Molto. Crea separazione internamente, un senso di solitudine profonda. Nel non riconoscere i miei bisogni e anticipare invece quelli degli altri, subito la ‘mia salvatrice’ si sente appagata ma successivamente sentirò un vuoto che non è pieno, non è creativo. E’ proprio il vuoto del senso di separazione.

C’è un’altra opzione che può accadere. Vedere qualcuno che sta annegando e che non ha la forza di chiedere aiuto. In quel caso, va da sé, non perdiamo tempo per lustrare il nostro ego da crocerossine dando consigli ma allunghiamogli una mano. Un gesto come tendere la mano, nel sacro silenzio, può attivare processi di guarigione molto più profondi di mille parole.

Ho intitolato questo articolo “sono come tu mi vuoi?” perché dietro alla sindrome della salvatrice c’è spesso la tendenza a diventare esattamente come l’altro si aspetta che io sia. In modo tale da sentirmi inclusa e apprezzata. Naturalmente è un’illusione, una manipolazione, una farsa: non potrò mai reggere il gioco fino alla fine, prima o poi crollerà il palco. Tutto ciò che fuoriesce dalla manifestazione autentica di ciò che sono prima o poi viene spazzato via, dal vento, dal fiume, bruciato dal fuoco o inghiottito dalla terra.

Nel momento in cui delego fuori da me il potere di sentirmi degna di amore, mi indebolisco e do forza a qualcosa o qualcuno che non potrà mai soddisfare i miei bisogni e le mie necessità (e, a dire il vero, non è nemmeno di sua competenza). Indebolisco me stessa tutte le volte che attivo il giochino di diventare a immagine e somiglianza dell’altro e indebolisco l’altro tutte le volte che, persa in questo meccanismo, anticipo i suoi bisogni, senza lasciargli lo spazio di cui necessita per elaborare e risolvere le sue questioni.

E’ un gioco a perdere, in entrambi i sensi di marcia.

 

Ho sperimentato direttamente (con buona pace della mia salvatrice) che nel momento in cui ho scelto consapevolmente di togliere la salvatrice di mezzo, le persone che stavo disperatamente cercando di salvare si sono salvate da sole e io ho potuto dedicarmi interamente alla mia fioritura, godendo nel vedere l’altro risplendere e rendendomi conto che tutto ciò che posso veramente fare per l’altro è tenere per mano me stessa. Non abbandonarmi più. Nemmeno per un attimo.

 

Navigare nel buio dei miei meccanismi inconsci mi ha aiutata ad imparare a riconoscerli, portandoli alla luce con molta amorevolezza e con molto rispetto. Sono tutti tasselli che testimoniano il cammino fatto, un po’ come le prime rughe intorno agli occhi che parlano di un intreccio di gioie e dolori.

Imparare ad essere come sono è un cammino, non lineare, ed è uno dei cammini più arricchenti che abbia intrapreso.

 

A tutte le donne in cammino, auguro un buon cammino di cuore!

 

 

Francesca Tamai

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