Per una via all'Armonia...

Per una via all’Armonia...

 

Di recente mi è stato regalato un libro di Laura Imai Messina dal titolo “WA La via giapponese all’armonia”, da cui riporto un passaggio:

 “L’occidentale cresce convinto che la libertà sia il principio basilare dell’uomo, che è inseguendo la personale felicità che ci si realizza. Eppure in Giappone è possibile scoprire che la gioia, quella duratura, la fa soprattutto l’ambiente in cui si vive, la comunità sconosciuta ma complice che ci accoglie.”

E’ una visione del mondo, una visione della società molto diversa dalla nostra.

Si, perché in occidente si insegna a non sacrificarsi per gli altri e a pensare al proprio bene, ad imparare a riconoscere i propri bisogni. Una volta che si pensa a ciò che è bene per sé automaticamente tutto il resto funzionerà. Questo concetto, dal mio punto di vista, è stato un po’ stressato, al punto tale da essere sfociato in uno sterile egoismo. Un eccessivo individualismo, spesso privo di considerazione e ascolto per l’altro.

 

La radice del sacrificio, così come lo intendiamo in occidente (complice il condizionamento cattolico) è che spesso lo stesso non è frutto di un’autentica scelta (se lo fosse non si chiamerebbe sacrificio) ma di una manipolazione al fine di ottenere il benestare dell’altro (con piena soddisfazione della nostra importanza personale). Se tutti mi vedono come brava, bella e buona io mi sento bene, per cui farò tutto ciò che posso per mantenere questa immagine di me: accontentando gli altri, non perché lo sento, ma perché così facendo mi sento riconosciuta e accettata. Ma c’è di più: questo mi permette anche di giocare sul senso di colpa, perché qualora qualcosa andasse storto “con tutto quello che ho sacrificato io per te, tu ora mi tratti così?”. Domanda: ma chi te l’ha chiesto?

 

E’ una dinamica basata sulla dipendenza emotiva malsana: la si strumentalizza per ottenere ciò che appaga le apparenze. E, al suo opposto, ma parte della stessa medaglia, c’è la contro-dipendenza emotiva: percepire di aver bisogno di nessuno per stare bene, se non di se stessi. Cosa assai improbabile visto che per venire al mondo secondo le leggi di Madre Natura necessitiamo tutti di un ovulo e di uno spermatozoo e di un corpo che abbia un utero ospitale per permetterci di formarci fino al momento della nascita. Così inizia la vita, con l’unione di 2 cellule e l’ospitalità in un corpo. La vita inizia con una sana dipendenza, con una cooperazione naturale. Così la nuova vita viene nutrita e sostenuta e a sua volta nutre e sostiene con la sua presenza.

Partendo da questo, sarà mai possibile quindi che possiamo fare a meno dell’altro? Sarà mai possibile che per stare bene abbiamo a tutti i costi bisogno solo dell’approvazione dell’altro, strumentalizzando comportamenti e relazioni? Non potrebbe esserci dell’altro che appaghi, nutra e disseti il nostro essere?

 

Non siamo stati educati a pensare al bene comune: la comunità che ci accoglie, che ci sostiene e ci fa sentire parte di un tutto. Ciò che conta è solo il nostro benessere individuale. Se sto bene io, a posto tutti. Una volta che ho pensato alla mia immondizia, chi se ne frega se trovo una carta in mezzo alla strada, mica l’ho buttata io. Queste parole denotano un atteggiamento sprezzante che non causerà forse un danno stravolgente alla nostra vita per via della singola carta ignorata in mezzo ad una strada, fino a che quella carta non la troviamo davanti alla porta di casa nostra. A quel punto il nostro individualismo viene sfregiato dall’inciviltà altrui, dimenticandoci che qualche settimana prima abbiamo avuto lo stesso esatto atteggiamento.

 

Diversamente, la bellezza, intesa come armonia, come imperfezione, come qualcosa di incompiuto che continua a muoversi e ad evolversi, vede al centro il benessere individuale e quello comune come lo stesso bene. Le due cose si fondono insieme in una danza armoniosa: la mia crescita, la capacità di ascoltarmi profondamente diventa parte del benessere che desidero condividere con la comunità per sentirmi parte integrante della stessa. La bellezza vede la scelta che alle volte va anche a discapito dell’individualismo per un bene più grande, che tocchi più vite, che includa più respiri, più occhi, più anime.

 

Una delle lezioni che insegna il Giappone è che non c’è nulla da insegnare perché il modo migliore per accogliere il mondo e per stare nel mondo è quello di distanziarsi dall’arido confronto tra le cose che porta sempre a denigrarne una delle due. A cosa serve tutto questo? Ad eliminare la competizione. Altro demone che porta alle scalate sociali, lavorative e a volte relazionali in solitaria.

 

WA, il titolo di questo libro, una parola con un significato ampio e variopinto: “un sistema di assorbimento, armonizzazione, scelta e adattamento. La capacità di accogliere e integrare il diverso, di armonizzarlo.”

Non scrivo queste riflessioni per paragonare due società molto diverse tra loro ed entrambe con punti critici e di forza. Mi chiedo però in quale punto della mia vita, individuale, professionale e sociale, io possa accogliere ed integrare il diverso, quello che appare difficile, sofferente, senza strumenti. Come e attraverso quale qualità possa avvenire questo tentativo di integrazione, laddove possibile.

La mia vita professionale sta cambiando, si sta muovendo verso un’integrazione profonda tra tutto ciò che ho respirato, compreso, inglobato nel mio essere rispetto alla dimensione olistica dell’essere umano e dell’esistenza stessa e la parte più legata alla scienza, alla psicologia clinica, alla dimensione che permette di dare un punto di partenza alle cose o di escluderne altre. Due dimensioni apparentemente opposte ma di fatto facenti parte di un unicuum: l’una completa l’altra; l’una sostiene l’altra; l’una accompagna l’altra. Così mi sto muovendo da qualche tempo destreggiandomi nel fare spazio, integrare, accostare, unire. Senza escludere nulla, perché tutto è parte di me. E lo strumento principale del mio lavoro sono io e il costante lavoro che faccio su me stessa con dedizione e passione da oltre vent’anni.

Così, tutte le volte che mi trovo di fronte ad un essere umano intriso di profonda sofferenza psicologica che lo porta a manifestare sintomi spesso destabilizzanti per sé e per l’ambiente che lo circonda, mi chiedo cosa possa fare perché questa persona si senta parte di e non discriminata, non esclusa perché “diversa”. Discriminare, allontanare, rifiutarsi di vedere la bellezza che vive anche in ognuna di queste persone significa fallire come società. Significa creare uno strappo non solo in quella persona, ma anche nel nucleo familiare di quella persona e nell’ambiente in cui vive. Lo strappo si rivela tale anche a livello sociale.

Conscia di non poter salvare nessuno e libera di scegliere di poter fare di più per accogliere e integrare. Ed è con questo intento che vibra nel profondo che mi chiedo: può forse la bellezza autentica, che include la capacità di interagire con il presente così com’è, senza edulcorare nulla, essere questa qualità carente nella nostra vita individuale e sociale? Può il tentativo di scorgere bellezza, anche negli anfratti più bui, chiusi e abbandonati da tempo, essere quel ponte che aiuta ad integrare e forse anche ad accogliere?

Può la bellezza aiutarci a costruire una società più proiettata al “noi” che all’ “io”? Può aiutarci a basarci sulla forza del potere personale di ognuno di noi più che sull’insicurezza dell’importanza personale di molti? La Bellezza, può in qualche modo aiutare a sentirci più uniti? Insieme? Forti del sostegno reciproco che possiamo ricevere e dare a nostra volta?

Credo che valga la pena farsi questa domanda almeno una volta nella vita.

Per una via all’Armonia…

 

 

Francesca Tamai

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